
Internet e dipendenza
Andrew Sullivan è un giornalista che per 15 anni ha tenuto uno dei più
popolari blog di informazione
statunitensi. In un articolo, pubblicato dal New York Times Magazine con il titolo I used to be a human being, Sullivan racconta le conseguenze del
“vivere sul web”.
“Un anno fa, come
molti tossicodipendenti, ho capito che stavo per crollare. Per quindici anni
ero stato ossessionato dal Web. Pubblicavo nuovi post sul mio blog diverse
volte al giorno, sette giorni su sette, e avevo una squadra di collaboratori
per aggiornare il sito ogni venti minuti nelle ore di punta”.
Sullivan racconta poi come, con l’avvento di Facebook e di Twitter, tutti abbiano cominciato ad avere un blog e un pubblico.
Il modo di vivere virtuale, ad un certo punto, è diventato la norma e la
diffusione degli smartphone ha dato la
possibilità a tutti di accedere in tempo reale ad un’infinita mole di informazioni
e contenuti frenetici continuamente cangianti… Questo modo di vivere virtuale,
questo non fermarsi mai, questo bisogno costante di aggiornamento è diventato
onnipresente e ha cominciato a riguardare un po’ tutti.
Dopo essere arrivato ad aggiornare il suo blog ogni 20
minuti, Sullivan comincia ad accusare problemi di salute, come quattro
infezioni ai bronchi in un anno, e una serie di altri disturbi: incapacità di
leggere libri, isolamento sociale e disturbi del sonno.
“Ogni giorno
passavo ore, da solo e in silenzio, attaccato ad un portatile, ma mi sentivo
come in mezzo a una folla cacofonica di parole e immagini, suoni e idee,
emozioni e invettive, una galleria del
vento assordante e soffocante”. Ero consapevole che una buona parte di quel
rumore era irresistibile. E anche che gran parte della tecnologia era
irresistibile. Ma cominciavo ad aver paura che questo modo di vivere in realtà
fosse diventato un modo di non vivere.”
Nel corso dell’articolo, Sullivan riporta uno studio del
2015 dal quale è emerso che le persone usano il telefono per cinque ore al
giorno, in 85 momenti diversi, ognuno dei quali dura meno di trenta secondi. Un
altro dato che emerge dallo studio è che le persone mediamente non sono
consapevoli dell’uso che fanno del telefono e pensano di utilizzarlo meno di quanto
in realtà facciano quotidianamente. Come sottolinea Sullivan, mediamente questi
momenti, o interruzioni, sono piacevoli poiché provengono da amici e
conoscenti, ma di che tipo di amicizia e di conoscenze si tratta?
“La nostra specie ha sviluppato una nuova
potentissima dipendenza e vive costantemente, dappertutto, alla sua mercè”.
Quali le conseguenze sulla qualità della nostra vita?
Quali gli effetti sulle nostre relazioni sociali?
Trovo bellissimo il recupero del tempo e della
consapevolezza della realtà di cui Sullivan si riappropria in un centro di
meditazione pochi mesi dopo aver abbandonato il web e con esso il rumore
verbale e visivo, la pioggia infinita di parole e immagini.
“Il mio respiro
rallenta. La mia mente si placa. Il mio corpo diventa molto più accessibile. Lo
sento digerire e fiutare, prudere e pulsare. E’ come se il mio cervello si
stesse distaccando da tutto ciò che è astratto e distante per avvicinarsi a
tutto ciò che è tangibile e vicino.
Le cose che
prima mi sfuggivano cominciano a incuriosirmi. Il secondo giorno, durante una
passeggiata di meditazione nel bosco, comincio a notare non solo la qualità
della luce autunnale tra le chiome degli alberi, ma le chiazze variopinte delle
foglie appena cadute, la consistenza dei licheni sui tronchi, il modo in cui le
radici si aggrappano e si arrampicano sui vecchi muri di pietra. Il mio primo
impulso –prendere il telefono e fare una foto- viene frustrato da una tasca
vuota. Quindi mi limito a guardare”.
Sullivan parla della riappropriazione dell’esperire, dell’interagire con la realtà
esterna attraverso tutto il nostro corpo, dandoci la possibilità di “sentire”
attraverso i sensi che abbiamo a disposizione, correndo anche il rischio che accada qualcosa di inaspettato …
“I primi giorni di
ritiro passano. Finita la novità, mi rendo conto sempre di più che d’ora in poi
le mie capacità di meditazione saranno messe duramente alla prova. Cominciano
ad affiorare i pensieri, i ricordi offuscano il presente, le sedute in silenzio
cominciano ad essere contornate dall’ansia.”
Poi,
inaspettatamente, il terzo giorno, mentre cammino nel bosco, vengo travolto.
Non capisco bene il motivo, ma probabilmente il verde, l’ombra e il silenzio, i
ruscelli che scendono dalle colline e gli uccelli che fluttuano nell’aria umida
risvegliano i miei ricordi d’infanzia”.
Eh sì… il contatto con la natura ha il potere di
avvicinarci a noi stessi e alle nostre emozioni, aiutandoci ad essere
consapevoli non solo della realtà esterna ma del nostro mondo interno.
In modo analogo, quando il contatto, anziché con la
natura, avviene con altre persone (che sono poi parte della natura…), succedono
cose inaspettate… Quando riusciamo a liberarci del filtro, solo apparentemente
protettivo, rappresentato dallo schermo del computer o del telefono, “ci
esponiamo” all’incontro, fatto di
sguardi, tonalità della voce, posture e gesti, correndo, in qualche modo, dei
rischi. E l’incontro è anche fatto di piccoli “rischi”: il rischio del non
essere accolti, per esempio, come vorremmo, il rischio di non sentirci
pienamente accettati e capiti o il rischio del “no”… La relazione, quella vera, a volte è percepita come troppo
impegnativa; essa richiede condivisione, reciprocità, momenti di separazione e
anche di solitudine, dove non ci rimane che stare con noi stessi.
D’altra parte, però, se proviamo a ricordare i momenti
più pieni e soddisfacenti della nostra vita (e suggerisco a tutti di provare a
fare questo esercizio…), non ci viene certo in mente una conversazione su
Facebook o una chat di WhatsApp!
Scrive Sullivan: “La
nostra dipendenza dalla dopamina, da quelle conferme che ci arrivano come
scosse dopo un tweet ben confezionato o uno scambio su Snapchat, ci ha resi più
felici? Ho il sospetto che ci abbia resi meno infelici, o piuttosto meno
consapevoli della nostra infelicità, e che i nostri telefono siano solo dei
nuovi e più potenti antidepressivi di tipo non farmaceutico.”
Il rapporto, quello vero, sia esso con la natura o con le
persone, coinvolge il nostro Sé in pieno: riguarda il corpo, i pensieri, le
emozioni… ci permette di “sentire” quanto abbiamo bisogno di entrare in
relazione con gli altri, ma anche con noi stessi, regalandoci una dimensione
squisitamente “umana” di cui tutti, in questa era virtuale, faremmo bene a riappropriarci.
Copyright © 2016 by Beatrice Piermartini All rights reserved
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