La regolazioni delle emozioni è la capacità di modulare in maniera flessibile gli affetti, in modo da mantenerci entro un livello di benessere e di serenità nel rapporto con noi stessi e con gli altri.
Un deficit nell'autoregolazione si manifesta, in particolar modo, in rapporto a quelle emozioni biologicamente primitive come la vergogna, la rabbia, l'eccitazione, l'invidia, il disgusto, il terrore-panico, l'euforia e la disperazione-assenza di speranza.
In particolare condizioni di stress, questi affetti sono sentiti come caotici, indifferenziati e sono accompagnati da forti e disorientanti sensazioni somato-viscerali. 
In tali circostanze, si verifica anche una coartazione della capacità di riflettere e di comprendere il proprio stato mentale che si traduce in confusione e caos interno.
Il seminario mira a fornire stimoli di natura teorica che fanno riferimento alle più recenti scoperte neuroscientifiche (LeDoux, 2016) e strumenti di natura pratica per le gestione dell'ansia, intesa come segnale da ascoltare e a cui attribuire un significato.
Sarà data particolare attenzione all'ascolto del corpo, ai messaggi che ci invia che troppo spesso trascuriamo, rinunciando così a conoscere il nostro mondo interno, cioè noi stessi.

Bibliografia



LA REGOLAZIONE DEGLI AFFETTI NELLA RELAZIONE TERAPEUTICA
Aceti Tiziana, Cherri Giuseppe, Liverano Antonella,                                             
Piermartini Beatrice, Zedda Cristiana[1]

la sintonizzazione terapeuta-paziente come strumento di regolazione degli affetti

Il contributo che proponiamo è incentrato sul ruolo che riveste nel lavoro clinico il processo di sintonizzazione fra paziente e terapeuta, che intendiamo non solo come strumento di lavoro, ma come l’essenza stessa del lavoro di terapia.
Per sintonizzazione affettiva intendiamo il processo per cui il terapeuta è in grado di “allineare” il proprio stato interno con quello del paziente, accogliendolo e trattenendolo in sé (Siegel, 2003).
Il processo di sintonizzazione è la base a partire dalla quale è possibile lavorare alla regolazione dell’intensità e della durata di quegli affetti che il paziente vive in modo doloroso e al di fuori di ogni consapevolezza.
Perché il bambino possa sviluppare un’esperienza del Sé, è necessario che i suoi segnali emotivi siano rispecchiati in modo abbastanza accurato e coerente da una figura di attaccamento (Jurist, Slade & Bergner, 2008). Una madre “sufficientemente” sintonizzata sui bisogni e sugli stati interni del bambino, modula, soprattutto nel primo anno di vita, i livelli di eccitazione che il piccolo può raggiungere, attraverso la riduzione degli affetti negativi e il potenziamento della possibilità di sperimentare affetti positivi.
Tale funzione è legata alla capacità della madre di sintonizzarsi sui reali stati affettivi del bambino, riconoscendoli come separati dai propri; è solo attraverso questa distinzione che la figura di riferimento può davvero occuparsi di calmare il piccolo; in caso contrario, può contribuire ad esacerbare lo stato emotivo del bambino, entrando, a sua volta, in uno stato di disregolazione, legato ad aspetti del suo Bambino.
Nei casi in cui la figura di attaccamento sia abbastanza sintonizzata sugli stati interni del bambino, le inevitabili rotture della relazione e del “campo intersoggettivo” (Stern, 2004), se sono seguite da una riparazione, effettuata con il giusto tempismo e dalla stessa figura che ha indotto lo stress, forniscono al bambino la possibilità di introiettare l’esperienza relativa alla possibilità di superare e gestire i momenti di negatività (Malatesta-Magai, 1991).
Le perdite di sintonizzazione, analogamente alle esperienze di sintonizzazione, possono essere ricordate profondamente nel corso della vita e tali memorie rimangono al di fuori della memoria esplicita e autobiografica, potendo riemergere sotto forma di risposte fisiologiche disconnesse, di emozioni e di agiti (Valent, 2008).
La possibilità di regolare gli stati emotivi sembra essere compromessa nella maggior parte delle persone che hanno vissuto l’esperienza del trauma (Fonagy, Target, 2008) e che presentano un disturbo di personalità (Fonagy e al., 2002).
Nella relazione terapeutica (Mancia, 2004), i ricordi impliciti riemergono attraverso i sogni e in varie modalità non verbali (gesti, movimenti, odore) e intraverbali  (tono della voce, pause o assenza di pause nell’eloquio).
I pazienti portano nella relazione terapeutica le esperienze affettive che non hanno potuto elaborare a livello simbolico, perché appartenenti ad epoche preverbali della vita o perché legate ad esperienze traumatiche; esse  sono registrate in forma preverbale e vengono comunicate secondo questa modalità.
Consideriamo i livelli presimbolici e preverbali che si presentano nella relazione terapeutica come “eredità” non solo del Bambino del paziente, ma anche del Bambino del caregiver. L’emergere di tali contenuti, nel corso della relazione terapeutica, è preziosa; accogliendo e trattenendo in sé queste esperienze, il terapeuta ha l’occasione di contattare l’esperienza interna del paziente che è arcaica, ma anche presente, poiché rivissuta nel qui ed ora della relazione terapeutica. Un buon utilizzo del suddetto materiale inconscio prodotto dal paziente è legato alla capacità del terapeuta di trattenerlo in sé abbastanza a lungo da identificarlo, pensarlo e, solo alla fine, commentarlo (Spezzano, 1993).


una base neurobiologica dell’intersoggettività: i neuroni specchio

In questo lavoro abbiamo deciso di inserire delle recenti scoperte nel campo delle neuroscienze con lo scopo di aprire un importante spunto di riflessione sulle basi neurobiologiche dell’intersogettività. 
Circa dieci anni fa, un gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma diretto da Giacomo Rizzolatti, scoprì e descrisse una popolazione di neuroni nell’area premotoria F5 del cervello dei macachi che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano, come per esempio afferrare un oggetto, ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo, uomo o scimmia che fosse.
Questi neuroni vennero denominati “neuroni specchio” (Rizzolatti et al., 1996; Gallese et al., 1996; vedi anche Gallese, 2000, 2001; Gallese et al., 2002; Rizzolatti, Fogassi & Gallese, 2000, 2001) e la loro scoperta ha modificato il nostro modo di concepire i meccanismi alla base della comprensione delle azioni osservate. L’osservazione di un’azione induce l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione, quindi l’automatica simulazione della stessa azione nel cervello dell’osservatore.
È stato proposto che questo meccanismo di simulazione possa essere alla base di una forma implicita di comprensione delle azioni altrui (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996; vedi anche Gallese, 2000, 2001, 2003a, 2003b, 2005a, 2005b, 2006; Gallese, Keysers & Rizzolatti, 2004; Rizzolatti, Fogassi, & Gallese, 2001, 2004; Rizzolatti & Craighero, 2004).  
Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l'esistenza di sistemi neuronali simili anche negli uomini (Rizzolatti, Fogassi & Gallese, 2000, 2001). 
Dalle ricerche è emerso che il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà "specchio" già rilevata nel caso della comprensione delle azioni.
E' stato possibile studiare sperimentalmente alcune emozioni primarie: i risultati mostrano che quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione (Wicker et al., 2003).
Quando osserviamo l’espressione facciale di un altro e questa percezione ci conduce ad identificare nell’altro un particolare stato affettivo, la sua emozione è ricostruita, esperita e perciò compresa direttamente attraverso una simulazione incarnata che produce uno stato corporeo condiviso dall’osservatore.
Questo stato corporeo comprende l’attivazione di meccansimi viscero-motori e neurovegetativi (Dimberg, 1982; Dimberg & Thunberg, 1998; Dimberg, Thunberg & Emehed, 2000; Lundqvist & Dimberg, 1995).
I neuroni specchio quindi, ci permetterebbero di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Questa scoperta potrebbe consentirci di comprendere ancora meglio l’aspetto fisiologico sottostante ad un fenomeno clinico già noto: la “sintonizzazione” o rispecchiamento.
I primi anticipatori del fenomeno “sintonizzazione” sono stati Bion (1962) col concetto di funzione alfa secondo cui la reverie materna permette il contenimento degli elementi di pensiero che possono essere trasformati e più tardi riutilizzati dal bambino per costruire il suo apparato psichicoWinnicott (1967) che parlò della “madre sufficientemente buona”, che rispecchia il bambino il quale in questo modo può essere visto, riconosciuto e quindi ritrovarsi negli occhi della madre e infine Stern (1985) col concetto di attunement dove la madre risponde al bambino non semplicemente imitandolo ma trascendendolo, alludendo ad aspetti di sentimenti sottostanti condivisi.
L’individuo ha una capacità innata e preprogrammata di internalizzare, incorporare, assimilare, imitare lo stato di un’altra persona e i neuroni specchio sembrano costituire la base biologica di questa capacità.
Questa predisposizione è presente sin dalla nascita e per poter essere adeguatamente concretizzata ha bisogno di avere come complemento esterno, una figura affettiva di riferimento.
La qualità della relazione tra il bambino e il caregiver è di straordinaria importanza; Fonagy e Target (1993- 2000) nei loro studi sulla funzione riflessiva hanno mostrato come la capacità da parte della madre di pensare e reagire il più correttamene possibile agli stati mentali del bambino, gli permetterà di costruire la sua capacità di comprendere i propri stati mentali come pure quelli degli altri.
Come hanno mostrato Gergely e Watson (1996), il caregiver funziona come un “biofeedback sociale”, nel senso che il bambino aggiusta le proprie emozioni monitorando le reazioni del caregiver che gliele rispecchia, ad esempio assegna un significato a una emozione o percezione somatica osservando la risposta affettiva della madre (vedi anche Sander, 2002).
È stato ipotizzato che una sintonizzazione inadeguata può essere la causa di vari deficit di mentalizzazione, con serie conseguenze nella vita adulta, come ad esempio una sintomatologia borderline (sensazioni di vuoto, diffusione di identità, carenza di empatia, aggressività e impulsività dovute a deficit di mentalizzazione, ecc.).
Possiamo fare un’ovvia analogia tra il rispecchiamento tra madre e bambino e quello tra terapeuta e paziente.
Descriviamo il processo interattivo:
-  Il bambino ha una determinata sensazione o uno stato mentale;
 La madre reagisce al bambino;
 Il bambino osserva e reagisce alla reazione della madre nei suoi confronti;
L’osservazione da parte del bambino della reazione della madre attiva in lui una simulazione automatica del comportamento della madre.
Se la reazione della madre al bambino è in sintonia con lo stato mentale del bambino, allora la simulazione stimolata automaticamente in lui dall’osservazione della reazione della madre sarà congruente con il suo stato mentale iniziale.
Questo non solo migliora il senso di connessione del bambino con la madre, ma influenza positivamente anche lo sviluppo del senso del Sé del bambino contribuendo alla continuità e alla coerenza dei suoi stati mentali.
Se la reazione della madre non è in sintonia con il vissuto iniziale del bambino, allora il processo di simulazione stimolato automaticamente nel bambino  quando osservava la reazione della madre verso di lui sarà incongruente col suo stato iniziale.
Ciò significa che vi sarà una disgiunzione tra lo stato iniziale del bambino e la sua internalizzazione della reazione della madre.
Si può ipotizzare che questa disgiunzione minacci l’integrità del Sé contribuendo allo sviluppo di quello che Winnicott (1960) chiama “falso Sé” e Fonagy et al. (2002) chiamano “Sé alieno”.
I concetti di “falso Sé” e “Sé alieno” hanno in comune l’idea che il bambino tramite la sintonizzazione  “importi” nella struttura del suo Sé reazioni dell’altro che sono incongruenti col suo stato mentale iniziale “vero” e biologicamente fondato.
Anche nel caso in cui la madre rispecchi o imiti fedelmente il comportamento del bambino, è probabile che non faciliti la sua crescita e la sua capacità di regolazione affettiva e di assegnare significati ai propri stati mentali. La sintonizzazione e il rispecchiamento devono aggiungere qualcosa allo stato precedente, “bonificando” il materiale emotivo in entrata.
Con tutta probabilità, il processo che abbiamo descritto avviene anche in terapia, dove idealmente il terapeuta non rispecchia letteralmente gli stati mentali del paziente ma dà risposte empatiche congruenti, che permettono al paziente di trovare se stesso e, nel contempo, facilitano la riflessione e la trasformazione dell’esperienza emotiva.


la regolazione affettiva come aspetto della funzione riflessiva e della mentalizzazione

La regolazione delle emozioni è alla base dei processi di organizzazione del Sé e le comunicazioni emotive che si stabiliscono tra genitore e figlio influenzano profondamente lo sviluppo delle capacità di auto organizzazione del bambino. Quest’ultimo deve sviluppare la capacità di regolare i suoi stati fisici e mentali. E’ attraverso i processi di “allineamento” (Siegel, 2003) di stati della mente che il cervello destro del bambino acquisisce la capacità di modulare ed organizzare le sue funzioni in maniera sempre più autonoma.
Le prime esperienze di relazioni oggettuali vengono registrate nell’inconscio profondo ed influenzano anche lo sviluppo dei sistemi psichici deputati all’elaborazione dell’informazione inconscia per tutto il resto della vita. Quindi la prima relazione del bambino con la madre agisce come uno “stampo” per la strutturazione dei circuiti dell’emisfero destro, modellando in maniera permanente le capacità adattive o mal adattive di un individuo di accedere a tutte le successive relazioni significative dal punto di vista emotivo.
La progressione evolutiva verso la consapevolezza interpersonale prevede che il bambino, così come il paziente, si sposti progressivamente da un modello subsimbolico preverbale ad uno mentalistico.
Con i pazienti che manifestano patologie dell’attaccamento, e quindi disturbi di sviluppo nell’area della regolazione affettiva, la relazione terapeutica funziona come una relazione di attaccamento. Tutti i più recenti studi sulle neuroscienze (Shore, 1996) sostengono che la qualità di tale relazione abbia effetti sullo sviluppo cerebrale ed, in particolare, sull’organizzazione del sistema limbico e sulla simmetrica dei lobi frontali, a qualsiasi età. Non solo. L’idea di Shore è che tutte le forme di psicoterapia promuovono un miglioramento della regolazione affettiva reso possibile allorchè il paziente ha un’esperienza affettiva in presenza del terapeuta. E quindi la teoria dell’attaccamento si rivela, nella prospettiva di Shore, una teoria della regolazione, in  quanto l’attaccamento è la regolazione interattiva e diadica dell’emozione. “Lo stato affettivo che sottende e alimenta il legame di attaccamento e la funzione adattiva centrale delle dinamiche di attaccamento è quella di generare a livello interattivo livelli ottimali di stati emotivi positivi e di affetti vitali”. (Shore, 2003).
Secondo Target e Fonagy una delle conseguenze fondamentali di un attaccamento sicuro è lo sviluppo della funzione riflessiva e della mentalizzazione.
La funzione riflessiva  si riferisce a quella operazione mentale che permette di interpretare il proprio comportamento e quello altrui in termini di ipotetici stati mentali, cioè in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni ed intenzioni. (Target & Fonagy, 2001).
In termini di Analisi Transazionale, il fallimento della funzione riflessiva può essere paragonato alle mancate integrazioni del Sé del genitore, e quindi con le ingiunzioni che hanno a che fare con la patologia strutturale del G1+ e G1-.
La  mentalizzazione è la capacità di rappresentarsi i propri e gli altrui stati mentali come dotati di intenzionalità, in modo da rendere predicibile il comportamento. E’ un’acquisizione transgenerazionale: il bambino può pensare a se stesso come essere intenzionale, nella misura in cui è stato pensato come essere intenzionale dal suo genitore e quindi può rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla comprensione dei loro sentimenti. Anche qui è un contesto di attaccamento sicuro ciò che fornisce lo scenario in cui il bambino può sviluppare tale sensibilità agli stati del sé.
Dal punto di vista dell’Analisi Transazionale, possiamo paragonare la mentalizzazione al cambiamento che le persone, attraverso la relazione con l’altro significativo ed in base al loro patrimonio neuronale, portano avanti, scegliendo fra nuove opzioni, per giungere ad un ridecisione. La mentalizzazione in AT ha quindi a che fare con la costruzione di un Genitore accogliente e nutritivo (Clarkson, 1988). In AT possiamo lavorare sulla mentalizzazione occupandoci delle modalità con cui il paziente, nel processo di costruzione del suo copione, ha mentalizzato la madre.
                                                                                                            (F. Baldoni, 2005)

Infatti, concepire gli altri come dotati di una mente significa sapersi rappresentare gli stati mentali altrui, significa saperli immaginare ed essere capaci di attivare stati della mente, prestando attenzione e sapendo riconoscere e controllare le emozioni. Il lavoro riflessivo e autoriflessivo è in primo piano: in un certo senso mentalizzare è saper pensare con la mente e saper regolare gli affetti. Nello scambio comunicativo che i bambini hanno nei primi mesi di vita con la madre tale rapporto mentalizzante è contemporaneamente al servizio della possibilità di costruire la mente del bambino e della madre e la relazione diadica.
-       i disturbi della regolazione affettiva
I disturbi della regolazione affettiva si manifestano come un fallimento della regolazione del Sé e dell’interazione con l’altro per cui l’individuo è incapace di autoregolare, ricevere, registrare ed elaborare le proprie esperienze emotive. Abbiamo quindi a che fare con un Sé disregolato ed un caregiver/terapeuta non sintonizzato.
Le cause  della disregolazione affettiva sono da ascriversi al maltrattamento, al trauma ed al non essere stati immersi in un clima che dà significato alle emozioni; questi eventi interagiscono a due livelli con le restrizioni della funzione riflessiva:
       spingono il bambino a non assumere la prospettiva dell’altro che è minacciosa;
       il bambino è privo di resilienza, nel senso che non possiede la capacità di capire situazioni interpersonali.
La trattazione di casi clinici esemplificherà come attraverso il processo di sintonizzazione e’ possibile giungere alla costruzione della capacità del pz di regolare le proprie emozioni e di mentalizzare, costruendo significati nuovi di natura simbolica. 


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[1] Aceti Tiziana – Psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale PTSTA – tiziana.aceti@alice.it
Cherri Giuseppe – Psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale PTSTA – giuseppe.cherri@gmail.com
Liverano Antonella – Psichiatra, psicoterapeuta, analista transazionale TSTA – a.livecor@libero.it
Piermartini Beatrice – Psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale CTA – bpiermartini@inwind.it
Zedda Cristiana – Psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale PTSTA – zedda.cristiana@tiscali.it