Psicologia delle emozioni

A proposito di emozioni…
Foto di Andrea Natali

L’invidia


L’invidia è un’emozione piuttosto trascurata nella letteratura psicologica e, forse, talvolta, riceve poca attenzione anche nel lavoro terapeutico. Sembra essere una Cenerentola delle emozioni, poco presa in considerazione e poco esplorata nei suoi significati profondi. Diversamente da altri vissuti, tuttavia, è poco visibile, quasi nascosta. Raramente, infatti, assistiamo ad espressioni esplicite di invidia, più spesso siamo abituati a vederla sotto mentite spoglie, in forma di manifestazioni aggressive e distruttive, a partire dalle quali possiamo inferirne la presenza.
L’etimologia stessa della parole “invidia” rimanda agli elementi di aggressività e rabbia distruttiva rintracciabili nella persona che prova questa emozione. Nel termine latino invidere, infatti, la particella in ha valore negativo e assume l’accezione di “cattivo”. Invidere, o invidiare, vuol dire, dunque, guardare male, con odio e con ostilità.
È importante specificare che dietro il “guardare male” si nasconde una fragilità, spesso la scottante sensazione di non avere accesso ai beni di cui la persona invidiata dispone. E i beni maggiormente invidiati non sono quelli materiali, ma riguardano il benessere, la felicità, le “cose buone” rintracciabili nelle vite negli altri. Ritengo che quando una persona invidia, faccia prima di tutto i conti con un senso di povertà interno e con la sensazione di non avere dentro di sé e nella propria vita “cose buone” e soddisfacenti. Questo, di fatto, non corrisponde quasi mai ai dati di realtà, ognun di noi dispone di importanti e preziose risorse e ogni vita reca in sé delle ricchezze. Si tratta, piuttosto, di uno stato interno che ha a che fare con la difficoltà di accedere a queste risorse.
Lavorare sull’invidia, dal mio punto di vista, vuol dire, dunque, accorgersi della vulnerabilità e della paura che la persona sente dentro di sé.

 Le origini dell’invidia

Il concetto di invidia, sebbene mai sistematizzato in psicoanalisi, fa, in realtà, la sua comparsa già con Freud, il quale affronta il tema in due diversi contesti. In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, sostiene che questo affetto è la vera origine dell’esigenza di giustizia e di uguaglianza avvertita all’interno dei gruppi sociali (1921). La richiesta di essere trattati equamente dai genitori, dagli insegnanti o dal leader di un gruppo in generale, è la conseguenza di una gelosia e di un’invidia originarie: così fra fratelli, nelle aule scolastiche e nei gruppi in genere, visto il desiderio di ognuno di essere il preferito e data l’impossibilità di esserlo, si leva la richiesta che almeno nessuno lo sia.
La seconda concettualizzazione freudiana riguarda “l’invidia del pene”, considerata come il principale organizzatore psichico della psicologia femminile e come la base della reazione terapeutica negativa nonché dell’analisi interminabile delle donne (Freud, 1908).
Karl Abraham (1923), allievo ed erede intellettuale di Freud, rintraccia l’origine dell’invidia in una moltitudine di circostanze esterne, e in modo particolare nel senso di esclusione che un soggetto prova quando un fratello più piccolo gli subentra nell’allattamento. Diversamente da Freud che considera l’invidia un tratto innato, Abraham la lega agli stimoli esterni; secondo il suo punto di vista, essa si manifesta solo quando le circostanze esterne ne sollecitano la comparsa, di solito in concomitanza con altri vissuti aggressivi: rancore, gelosia, ostilità, avidità, desiderio di possesso e di controllo. Le persone molto invidiose, secondo l’autore, sviluppano personalità conflittuali, marcate dal narcisismo e dal sadismo; inoltre, “tendono a distruggere tutte le relazioni con l’ambiente, anzi tutta la loro vita, per l’ostinazione, l’invidia e la sopravvalutazione di sé” (1923, tr. It. p. 122).
L’autrice che ha maggiormente sviluppato il concetto di invidia è Melania Klein, la quale situa questo affetto nel rapporto originario che l’essere umano intrattiene con la madre, il cui prototipo si troverebbe nella relazione del bambino con il seno.
Le teorizzazioni della Klein trovarono compiutezza nel 1957, in “Invidia e gratitudine”, il suo ultimo libro, in cui questo affetto, considerato fra i più precoci, è concettualizzato come un derivato della pulsione di morte e come l’espressione sadico-orale e sadico-anale di impulsi distruttivi primordiali che entrano in azione sin dalla nascita.
Per la Klein, dunque, l’invidia sorge nella primissima infanzia, in una fase precedente a quella individuata da Freud e, nella forma più primitiva, è rivolta al seno da cui proviene il nutrimento. Secondo l’autrice, il bambino sente che il seno possiede tutto quello che egli desidera, ha una quantità illimitata di latte e di amore che, però, tiene per sé, per il suo godimento. Il seno invidiato è sia quello ricco e vitale, facile oggetto di desideri predatori, sia quello che depriva e dà poco. Poiché non è il bambino a decidere i tempi dell’assenza o della presenza del seno, egli va incontro ad una frustrazione che alimenta l’odio e l’invidia. La conseguenza di questo stato mentale, è la proiezione della distruttività sull’oggetto, in maniera tale che il bambino vada soggetto ad angosce persecutorie: il bambino odia e desidera distruggere e, per effetto dell’identificazione proiettiva, si sente odiato e in pericolo.
La gratitudine, il sentimento opposto dell’invidia, nasce dal timore di avere danneggiato l’oggetto con i propri attacchi distruttivi. In questo fondamentale passaggio, l’angoscia non è più di tipo persecutorio, causata cioè dall’oggetto che può danneggiare, ma è “angoscia per l’oggetto” che può essere stato danneggiato dall’odio e dall’invidia. Il senso di colpa, l’angoscia depressiva di cui parla la Klein, sorgono come conseguenza del riconoscimento di una separatezza fra il Sé e l’Oggetto d’amore. A questo fondamentale passaggio evolutivo, seguono la riparazione e la gratitudine, affetti estremamente evoluti e conseguenza del riconoscimento di tutto quello che si è ricevuto dall’altro. Visto in altri termini, il desiderio di riparazione e la gratitudine rappresentano il trionfo dell’amore sull’odio.
In tal senso, nel 1969, la Klein afferma: “Sono giunta alla conclusione che l’invidia sia uno dei fattori che maggiormente mina l’amore e la gratitudine alle loro radici, poiché essa colpisce il rapporto più precoce, quello con la madre” (p.9).
L’introiezione di un seno buono rappresenta l’istinto di vita e costituisce la prima manifestazione della creatività. È da questo rapporto fondamentale che il bambino riceve non solo la gratificazione che desidera, ma anche la sensazione che questo rapporto lo mantenga in vita. Se si instaura una stabile identificazione con un oggetto internalizzato buono che dà vita, la persona sentirà un forte impulso alla creatività e alla vitalità.
Al contrario, l’introiezione dell’oggetto cattivo o elevati livelli di invidia innati, fanno sì che il bambino desideri “guastare l’oggetto” (1969, p.22), proprio per non invidiarlo più.
Per Wilfred Bion (1967) uno dei più importanti successori del pensiero kleiniano, l'invidia sarebbe di ostacolo alla formazione del pensiero; quest’ultimo, infatti, può svilupparsi solo attraverso la capacità del soggetto di tollerare un certo grado di frustrazione. Se, al contrario, alla frustrazione segue immediatamente l’attacco invidioso, il pensiero non trova spazio per essere elaborato.

La maggior parte dei contenuti di questo post sono tratti dal seguente articolo:
Piermartini, B., Liverano, A. (2017). “Il significato psicodinamico del processo di invidia nel paziente narcisista”. Rivista Italiana di Analisi Transazionale e Metodologie Psicoterapeutiche, 36, 2017, pp. 83-100.